
Povero Charlie “AziendachehainvestitoinFacebook” Brown!
Facebook è da anni croce e delizia dei marketers. Tante volte ho la classica frase “Ci sono solo gattini e selfie!“, eppure tutti vogliono comunque esserci. Ma utilizzare le potenzialità della piattaforma e conquistare i suoi quasi 2 miliardi di utenti, diventa sempre più dura. Sono certo che non ti sarà sfuggita l’ultima ondata di articoli riguardanti il crollo della reach organica delle fan page, che dal 2012 peggiora di giorno in giorno.
Forse non lo sai, ma alcuni in realtà hanno scelto di abbandonare: negli ultimi mesi, molte amicizie sono finite a suon di ads e reach, di promesse infrante e di deplorevole arroganza. E parlo sia di amicizie tra Facebook e le aziende che hanno investito su di essa, sia delle amicizie tra le fan page e i propri followers di fatto rotte dal sistema, il quale ha iniziato a interporsi tra le due parti attraverso il filtraggio delle news feed.
Svolgendo alcune ricerche ho notato che in Italia non si è discusso molto della questione, che spazia su temi etici e commerciali, sulla quale secondo me tutti dovremmo invece riflettere, interrogandoci seriamente sul futuro di questa piattaforma.
Per esempio, non pensi anche tu che Facebook stia di fatto diventando, neanche troppo silenziosamente, un circuito di ads a pagamento? Non ti spaventa come abbia trattato a pesci in faccia le aziende che hanno creduto e investito con fiducia sulla piattaforma? Me lo chiedo da settimane: che spazio resterà per me e i miei clienti su questo social?
Voglio raccontarti e ragionare con te su di una serie di fatti che hanno segnato la storia di un prodotto che si sta rivelando sempre di più terreno fertile per poche, specifiche aziende e business. Sopratutto il suo.
“Facebook mette in atto il più grande bait and switch della storia”

Immagine di protesta tratta dal post di dangerousminds.
Suona più o meno così l’incipit di un post del 2012 intitolato “Facebook: i want my friends back!“ del blog dangerousminds , tra i primi ad arrabbiarsi sul serio con l’azienda del buon Zuckerberg.
L’espressione Bait and switch si riferisce alla particolare tattica di vendita dove, dopo aver attirato un cliente con promesse e prezzi bassi, gli si comunica che l’offerta è esaurita per poi cercare di convincerlo con insistenza ad acquistare qualcosa di molto più costoso. Si tratta evidentemente di un espediente scorretto, illegale. Solo Lucy è riuscita a rendercelo simpatico nella famosa gag del pallone.
Eppure è proprio così che Facebook si è comportata con le aziende che hanno investito sulla sua piattaforma.
Per anni le stesse sono state rassicurate sul fatto che lo sviluppo di contenuti, le strategie di pubbliche relazioni, il sistema di promozione a pagamento e più in generale ogni attività volta ad accrescere il numero di follower delle fan page fosse un investimento a lungo termine.
Queste promesse, questo impegno preso con chi ha investito sulla piattaforma, e ha contribuito al successo della stessa, sono state per qualche tempo in apparenza mantenute da Facebook. Ma dopo il “bait”, che in italiano significa “esca”, è arrivato lo “switch“, lo scambio.
Un enorme problema e una disastrosa soluzione
Nella seconda metà del 2012 Facebook si trova a dover fronteggiare un enorme problema: gli utenti mediamente seguono sempre più pagine, hanno sempre più amici e i contenuti sulla loro bacheca si moltiplicano ma, allo stesso momento, Il tempo mediamente speso dalle persone sulla piattaforma rimane lo stesso. Sulle News Feed non c’è più spazio per tutti.
E l’azienda di Zuckerberg, la quale sicuramente aveva preventivato l’eventuale insorgere di questa problematica anche mentre continuava a ripetere alle aziende di investire su fan page e fan, teneva in serbo una soluzione che ha fatto molto discutere.
Ce la spiega Ryan Holiday , giornalista del New York Observer:
Nessuna cospirazione. Facebook lo ha ammesso la scorsa settimana: i contenuti delle fan page ora raggiungono, in media, il 15% dei fan. Per una meravigliosa coincidenza, Facebook aveva pronta la soluzione a questo problema: farsi pagare per garantire più visibilità.
Come il loro responsabile pubblicitario, Gokul Rajaram, ha spiegato, se vuoi parlare con l’altro 85% delle persone che hanno scelto di ricevere le tue novità, “sponsorizzare i post è importante”.
In parole povere, tramite le “storie sponsorizzate, brands, agenzie e artisti devono ora pagare per raggiungere i loro stessi fans – il motivo primario per avere un pagina fan – perchè le loro pagine hanno di colpo smesso di funzionare.
Siamo chiaramente davanti ad un conflitto di interessi. Più la piattaforma è in difficoltà, più le aziende dovranno usare le storie sponsorizzate. In un certo senso, questo significa che il sistema Facebook è rotto di proposito, in modo da prelevare sempre più denaro dai propri utenti.”

Che sia stato lui a consigliare Facebook?
Con molto candore, Facebook ammette che la soluzione da loro proposta, nel caso i contenuti risultassero secondo l’algoritmo non importanti per l’utenza, sia quella di pagare per sponsorizzarli. Alcune aziende sono arrivate a parlare di estorsione e rapina.
Dangerousminds ci da un’idea della spesa che avrebbe dovuto sostenere, in quel particolare periodo, per raggiungere il 100% della sua utenza di 50.000 followers: 200 dollari per post, quindi dai 2.000 ai 3.200 dollari giornalieri, 14.000 settimanali, 56.000 mensili e, udite udite, 672.000 dollari (!!!) annuali. Cifre folli per raggiungere “quello che potevamo ottenere gratis fino alla primavera del 2012“.
Un commento, citato nell’articolo da dangerousminds, riassume la faccenda con la frase “it’s capitalism, baby“.
Spicca anche un passaggio particolarmente forte:
Non ci vuole certo una laurea ad Harvard per capire che Facebook, inserendosi con una tale violenza nella “equazione” della loro piattaforma e conseguentemente provocando la rabbia della sua base di utenza, abbia probabilmente commesso , se non altro per le dimensioni della sua capitalizzazione di mercato, l’atto più deliberatamente sbagliato mai concepito da una major nell’intera storia del capitalismo americano e mondiale.”
E dopo tutto questo, a dispetto delle proteste sorte in quel periodo e mai completamente placatesi, la situazione è inesorabilmente peggiorata: come riporta questo studio di EdgeRankChecker a Marzo 2014 fino al 95% dei fan, la cui attenzione è stata onestamente, faticosamente e costosamente conquistata, risulta ora raggiungibile per la buona parte delle fan page solo tramite pagamento.
Novantacinquepercento, hai letto bene. E le tariffe in questione non sono certo accessibili a tutti.
Un certo Bill Dow, rispondendo a Holiday con un commento al suo articolo, dice la sua su questi prezzi:
Non sarà probabilmente un grosso problema per McDonalds o Coca Cola, che sicuramente possono permettersi di pagare 200 dollari per far si che i loro post raggiungano il 100% della reach organica. E pagherei anche io se non costasse così tanto: devono trovare il modo di aggiustare le tariffe in base alla grandezza della pagina. In questo momento dimostrano solo di fregarsene delle piccole aziende: possono comunque fare i soldi con le grandi. E la parte peggiore della faccenda è il pensiero di mentire ai miei fan, che chiedono di seguire i nostri contenuti diventando nostri followers, e che non possono riceverli se non hanno la fortuna di essere in quel 15% raggiunto organicamente”
Non ha tutti i torti, vero?
Il problema non è l’esistenza di canali a pagamento: le aziende che gestiscono i social non sono certo onlus. L’errore è stato promettere per poi cambiare repentinamente rotta, evidentemente in malafede.
Ora voglio parlarti di un altro interessante e più recente caso.
Eat24 cancella la sua fan page con 70.000 followers
Ha fatto molto parlare di sé ( non in Italia, giudicando dalle SERP ) la lettera di Eat24 , un network di ristorazione a domicilio americano basato su di una app, che in modo colorito e irriverente spiega perchè il primo Aprile di quest’anno ha deciso di cancellare la sua pagina Facebook da 70.000 likes. Eccone uno stralcio:
Non possiamo più fidarci di te. Ci hai mentito dicendoci che eri un social network quando non lo sei affatto. O almeno, non lo sei più. Quando andiamo su Facebook, vogliamo vedere cosa faranno i nostri amici il prossimo weekend, leggere le divertenti headlines di “The Onion” e vedere una foto di un gatto con la testa incastrata nel divano. Invece, vediamo pubblicità. Ci fa pensare che tutto quello che ti importa siano i nostri soldi. Perchè dobbiamo scansare dozzine di annunci su come dimagrire o richieste di Candy Crush prima di poter vedere ciò che realmente ci interessa?”
Eat24 sostiene in questa lettera che sia assurdo che Facebook decida arbitrariamente cosa l’utenza voglia veramente vedere sulla sua news feed quando, in realtà, queste stesse persone hanno di fatto palesemente già scelto nel momento in cui hanno deciso di seguire la fan page.
L’azienda racconta inoltre di un’esperienza analoga a quella di Veritasium , blog scientifico che ha dimostrato, in un video di Youtube divenuto virale ( e che vi invito se non l’avete già fatto a guardare ), come Facebook gli avesse venduto, tramite la promozione a pagamento della pagina, like fasulli da profili finti. Eat24, operante solo in America, sostiene di aver ricevuto like da Bangladesh e Dubai, dove il loro servizio probabilmente non è grande fonte di interesse in quanto non esistente.
Oltre a rappresentare una truffa in piena regola, questa pratica dei fake likes porta ad un calo ulteriore del reach organico, dovuto ad una naturale diminuzione del coinvolgimento: i post, già serviti organicamente solo ad una piccola fetta di utenza, possono venir serviti ai profili fasulli, i quali sono di fatto inattivi . L’interazione è un fattore giudicato molto importante dall’algoritmo che filtra le News Feed, ma in questo modo è Facebook stessa che la sabota.
Questi finti like in buona sostanza creano dipendenza dalle sponsorizzazioni.
Sono stati questi i motivi principali della scelta di Eat24 di abbandonare Facebook, giudicata da alcuni marketer “completamente folle“.
Facebook risponde, parlando poco e dicendo molto
A questa lettera arrivò prontamente la risposta di Facebook, scritta da parte di Brandon McCormick, un responsabile delle pubbliche relazioni, che in un commento scrive:
Il mondo è molto più complicato rispetto a quando ci siamo incontrati per la prima volta, è cambiato. Accadono un sacco di cose serie nel mondo e uno dei miei migliori amici ha appena avuto un figlio, un altro ha fatto una foto dei suoi cupcake fatti in casa, e ciò di cui ci siamo resi conto è che la gente tiene molto di più a queste cose che al “sushi porn” ( NDR: Eat24 utilizzava e creava divertenti meme a base di cibo per il suo marketing ). Quindi ci dispiace separarci da voi perchè pensiamo potremmo essere ancora amici, davvero, ma rispettiamo la vostra esigenza di spazio.”

Difficile immaginare il perché Facebook si sia arrabbiata così tanto, vero?
Oltre alla magra figura procurata dalla suo tono arrogante, questo intervento ha chiarito una volta per tutte ai marketers il pensiero di Facebook, ovvero che il reach organico delle fan page è qualcosa che l’utente non ritiene importante sulla sua news feed.
E c’è anche un sottointeso: se paghi, cara azienda, chiudiamo un occhio su quelli che siamo convinti siano i desideri dell’utente.
L’investimento di Eat24 su Facebook in realtà paga… un mese dopo la chiusura della pagina
Eat24 ha quindi pubblicato un follow up alla sua lettera di divorzio, dalla quale si possono trarre alcune considerazioni molto interessanti.
Innanzitutto , per smentire chi la dipingeva come “troppo tirchia investire nelle ads di Facebook“, l’azienda ha dichiarato pubblicamente di aver stanziato, prima della chiusura, ben 1 milione di dollari nella promozione di Facebook.
Soldi quindi buttati? Assolutamente no!
Eat24 afferma di aver registrato nella settimana successiva alla rottura un numero di installazioni della sua app dedicata da superiore di 1,75 volte rispetto ad un intero anno di promozione tramite Facebook. Affermano anche che il tasso di apertura e di coinvolgimento delle loro mail è schizzato alle stelle, addirittura raddoppiato dal 20% al 40%. La scelta, in un modo per alcuni inaspettato, ha dato i suoi frutti.
L’azienda afferma che la rottura con Facebook è stata “la migliore mossa di marketing dell’intero anno“. E si dice contenta che i suoi clienti “non debbano più preoccuparsi di vedere i loro dati venduti a compagnie che compilano liste di “target demographics“.

Pare che Eat24 non sia stata l’unica a guadagnare da questo divorzio.
Una vicenda su cui riflettere attentamente
Riflettendo su questa storia, ho tratto alcune conclusioni:
[do action=”citazioni-dx”]Perchè dare soldi a chi ti costringe a pagare avendo arbitrariamente deciso che non sei importante per i tuoi fan?[/do]
- Che l’utenza, al contrario di ciò che Facebook dichiara, è interessata al brand e lo ritiene importante.
E’ lampante come i follower di Eat24 non abbiano esitato a cambiare piattaforma per seguire l’azienda.
Sicuramente non è parso come il comportamento di chi, per Facebook, “è interessato a cose più importanti“. - Sempre l’utenza ha ribadito che quella di Eat24 fosse una pagina che aveva scelto consapevolmente di seguire, e dalla quale voleva attivamente ricevere notizie. Se non fosse così, non avrebbe seguito l’azienda su nuovi canali;
- Facebook, in quanto azienda, si è quindi attivamente interposta tra utente e brand per ragioni riguardanti il suo personale giudizio;
- Che i soldi delle ads di Facebook, come dichiara nell’articolo, possono venire investiti in modi più redditizi. Perchè darli ad una piattaforma che ti costringe a pagare dopo aver arbitrariamente deciso che non sei più importante per il tuo pubblico?;
- Che uscire da Facebook non rappresenta una sconfitta. Penso a tutte quelle aziende che anni fa hanno calcolato il ritorno di investimento di ogni singolo fan senza mettere in conto il decadimento nel tempo del reach organico, e che si sono quindi trovate con buchi giganteschi. Temo che molte di loro si sentano costrette a continuare ad investire in Facebook ads per giustificare le spese passate, alla pari di qualcuno che ha perso alla slot machine e che continua a giocare per recuperare. Con coraggio e intraprendenza, si possono trovare strade alternative e molto più efficaci. Il proprio seguito è una conquista del brand, non della piattaforma.
- Che il marketing sul web non gira intorno a Facebook, al contrario di quello che molti sostengono o credono, in primis le aziende più “ingenue” (anche molti marketers a dirla tutta);
- Che investire in un’azienda sempre meno trasparente e dall’identità mutevole ( pensate ai nuovi “Buy buttons” che a me sinceramente ricordano Amazon Marketplace ) come Facebook è rischioso;
La scusa della “qualità”
So già cosa stai probabilmente pensando: “Non è vero! Non tutti hanno avuto problemi. Ci sono tante pagine che stanno ancora ottenendo risultati importanti con il traffico organico! Dai, è solo una questione di contenuti di qualità!“.
Beh, certamente alcune aziende stanno ottenendo comunque buoni risultati su Facebook a livello di reach organico. Ma la ragione di questo non è da ricercarsi in una qualità “assoluta” dei contenuti, quanto al fatto di essere in linea con quello che l’algoritmo giudica di qualità, “importante per gli utenti“.
Innanzitutto voglio darti alcune informazioni su questo famigerato sistema, la cui fonte è un’intervista rilasciata da Will Cathcart, direttore del product management del Facebook News Feed, a Techcrunch.
Questo signore ha raccontato di come l’algoritmo utilizzi più o meno 100.000 indicatori per calcolare la rilevanza di ogni post rispetto al singolo utente. Ad ogni contenuto potenzialmente visibile viene assegnato un voto, tramite il quale viene deciso l’ordine di apparizione sulle singole news feed, intervallato da “qualche pubblicità“.
Ha anche affermato che i fattori più determinanti a livello di reach organico sono:
- Quanto popolare a livello di like, commenti, condivisioni e clicks, sono stati in generale i contenuti precedenti del creatore;
- Quanto è stato popolare il contenuto con tutti quelli che lo hanno già visualizzato;
- Quanto popolari sono stati i precedenti post dell’autore rispetto al proprietario del news feed in questione;
- Quale tipo di contenuto (status, foto, video, links) sia quello proposto rispetto alla tipologia preferita dal proprietario del news feed;
- Quanto sia recente il contenuto;
Secondo te che tipo di contenuto può venire privilegiato secondo queste logiche basate sul coinvolgimento? Ti dico la mia: non tutti quelli che la gente desidera vedere. Ti spiego perchè.
La tipologia chiave di contenuto che Facebook premia con il suo algoritmo è quella cara a quelli che io chiamo gli urlatori: cronaca, intrattenimento, umorismo, interventi di politici e di gente dello spettacolo sono ciò che tende a far discutere o, molto più spesso, sbraitare la gente in lungo e in largo, generando reazioni, condivisioni, traffico referral. Se osservo la mia bacheca, capisco che succede anche a me. In fondo Facebook è un punto di ritrovo, di chiacchiere e discussioni più o meno spensierate, di cazzeggio come giustamente dice Matteo Di Felice in questo interessante intervento.
Ma questa attenzione è sinonimo di qualità? E’ sintomo di importanza in senso assoluto? Non credo proprio. La qualità non può essere determinata prevalentemente da segnali riguardanti il coinvolgimento. E’ solo una scusa per ottenere più denaro dalla propria utenza.
Pensaci: se l’utente ha optato attivamente per ricevere aggiornamenti da una pagina che gli interessa, come può un algoritmo giudicare i suoi contenuti meno importanti perchè non dotati di caratteristiche così lontane dal concetto chiave di importanza?
Sempre nell’intervento di Matteo Di Felice viene citato uno studio IBM: le persone desiderano prevalentemente dalle aziende sui social sconti, offerte, recensioni e comparazioni di prodotto. Certamente contenuti non propriamente calamite del genere di segnali ritenuti come “segnali d’importanza” da Facebook, ma comunque assolutamente interessanti per chi ha deciso di volerli ricevere! Che sono di qualità rispetto alle scelte dell’utente. Ed è solo uno dei tanti esempi.
Il “peccato” di Facebook
Il peccato di Facebook è palese: pur affermando il contrario, ha dimostrato che questo algoritmo non va verso gli interessi dell’utente quanto i suoi. Assomiglia sempre di più ad un circuito di ads mascherato da luogo di interazione sociale.
Una piattaforma dove venire sempre più disturbati da pubblicità, che sono state spostate da una loro giusta collocazione laterale sulla falsariga dei blog, ad una posizione centrale che dovrebbe essere riservata a ciò che l’utente veramente ama ed è interessato a fruire, lasciandosi coinvolgere dai contenuti e ricevendo informazioni che ha palesemente scelto di ricevere cliccando il tasto “like” sulle sue fan page preferite.